martedì 18 dicembre 2012

Alla distanza, non lontananza...

Un saluto, l'ultimo, che sia quasi esorcismo.
Affinché si possa ricordare e tornare a vivere. O vivere ricordando. O ricordare vivendo. Ancora non so.
A mio zio, Giuseppe Ravani. A troppi giorni dalla morte. Nella speranza che la rabbia lasci spazio alla malinconia


E’ di occhi il sorriso.
E di baffi; ma dietro, non sotto, che la differenza è un abisso, per chi lo sa cogliere. Viso inclinato - a sorridere, ma di un’inezia. E sguardo che va oltre, a incorniciare il mondo.
Occhi che hanno visto, occhi che sanno. Un mondo, come vera dimora: pellegrino, viandante, viaggiatore.
Viaggiatore del mondo - nel, mondo: Marocco, Arabia Saudita, Iraq, Capo verde. Ma anche Friuli (dopo il terremoto), Genova, Novi Ligure,Taranto.
Vivere, conoscere, capire.

Vivere.
Soprattutto.

Geppo, Pepo.
Mai il nome di Battesimo, così lungo, così austero.
Geppo che corre sullo sterrato, contro il vento implacabile, a Santa Maria, per mantenersi in forma, per mantenersi attento.
Geppo capocarpentiere, a Riad, a costruire un grattacielo che solletichi le nuvole.
Geppo in ufficio tecnico, a Pisogne, che si indigna e si arrabbia, che a volte è così che va fatto.
Geppo con la nettezza urbana, che è sempre una questione di principi. E certe volte lo sguardo non lo si può proprio abbassare.
Geppo a lavorare per la centrale termica in Marocco.
Geppo che si altera in palestra, gesticola e cammina a lato della panchina, che la lancerebbe lui, la palla, a canestro.
Geppo che pesca. Sereno, pacifico, che non vorrebbe essere in nessun altro posto al mondo.
Geppo che si beve una birra, che la vita è bella, anche per questo.
Geppo che va a caccia, che raccoglie mele, che pianta cipolle. Tra una e l’altra conta ventidue cm, non uno di meno, non uno di più.
Geppo che costruisce il nido per le colombe, di legno, misure perfette, verificate, mica si è geometri per nulla. E poi le libera, le colombe, dalla voliera, che sia una loro scelta quella di rimanere, o andare.
Geppo che intaglia legni. Crea bastoni improbabili e capannette per un Gesù bambino che dovrà arrivare.
Geppo che costruisce mensole per la cucina, in granito, belle, si prepara anche i supporti in ferro, vuoi che non sia capace di saldare?
Geppo tra i volontari della Protezione Civile, che spegne un incendio a Toline.
Geppo che cura le sue azalee e moltiplica tillandsie. Dedizione. Pazienza.
Geppo che lo spiedo come lo sa fare lui…
Geppo che gioca a carte, ma bisogna ragionare, che anche il gioco merita impegno.
Geppo che dipinge le stanze di bianco, ingrandisce il bianco.
Geppo che ricopia la sua ricetta della salsa verde e quella per il pesto, ereditata da un ligure, che lui a Genova c’ha lavorato, ma il tempo per le parole (o le persone?) c’è, sempre.
Geppo che ascolta De Andrè.
Geppo ragazzo, militare nei fanti, poi si iscrive all’associazione a sessant’anni, che si è sempre in tempo.
Geppo e la sua R5 turbo rossa. E la sua panda rosso scuro. Rosso, comunque.
Geppo che se l’Inter stasera vince…
Geppo a raccogliere funghi. E poi se li sogna anche la notte, grossi così, celati da muschi ingordi.
Geppo che le foglie di basilico vanno spezzate con le dita.
Geppo che chiede “Allora, come vai a scuola?” Pausa “In pullman?” E sghignazza.

Geppo che sorride di occhi, ancora, viso inclinato.
E saluta, mano destra alzata, aperta. Ma per poco, che c’ha già altro da fare.
Altro da vivere.

Perché è un buon viatico


Innamorarsi di Tadeus, va da sé.
Lo vedo - nel suo appartamento, vedo il libro, fresco di stampa, sul limitare del tavolo. Lo vedo di occhi chiari, melanconici. Dimesso o infervorato. Ironico. Sagace.
E sono un po’ Joanna, stasera, lo attendo, lo accolgo, con i suoi modi, i suoi tempi.
E sono un po’ Tiago, con quel “…sentimento che era di tutti e che nessuno aveva il coraggio di rendere esplicito: un disagio, come una tenue malattia; non paura; piuttosto un misto di insicurezza e struggimento…”
Rileggo Tabucchi in questi miei giorni. Rileggo. Ch’ho una memoria spocchiosa, io.
Ho scelto l’Angelo nero: ricordavo la cernia, volevo capire (immaginare di capire), riporre un tassello, una nuova tarsia. Invece, dapprima, ho ritrovato Tadeus:
“Senti la vertigine che ti cattura lo sguardo e che si trasforma in un pizzicore che ti scende lungo la schiena e ti raggiunge le mani che ora si aprono e si chiudono da sole sul ferro del parapetto: ora sai perché Tadeus ti ha chiamato fin lì, non poteva essere che lui a darti un simile appuntamento”
Penso a chi sostiene che fosse il mandante.
Io non credo. Per il mio sentire, Tadeus, è il viatico stesso.
“…Joana arriva davanti al portone della casa di Tadeus e sul portone, con la spalla appoggiata allo stipite, c’era lui, Tadeus, che non le diceva niente, ma le sorrideva come se dicesse: ti aspettavo, lo sapevo che saresti venuta, che non avresti resistito alla tentazione. E allora lei annuiva, come se ammettesse che era venuta perché doveva e non si può resistere alle cose che si devono fare…”
Accompagna Joanna dentro il suo incubo. Oleoso. Putrido. Attende che lei riesca a vederne la fine da sola- della sua pena, che riemerga donna matura, forte di un nuovo incontro, il peggiore, forse.
E’ il cavaliere, Tadeus. La sostiene, le resta accanto o dietro: che siano le spalle protette e che sia il viso, di lei, a sfidare. Ché certe fasi, nella vita, sono così, da affrontare: di muso e di occhi, e di spalle coperte.
Mi porterò nel sonno questa immagine meravigliosa, stasera.

 “…alla notte, al mare alla distanza; non lontananza, distanza, c’è una certa differenza, disse Tadeus.”
E regalo una lacrima a colui che sapeva cosa scrivere e come farlo.

lunedì 10 dicembre 2012

In qualche modo bisogna pur cominciare



Il capitano guardò Fermina Daza e vide sulle sue ciglia i primi fulgori di una brina invernale. Poi guardò Florentino Ariza, la sua padronanza invincibile, il suo amore impavido, e lo turbò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti.

«E fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del cazzo?» gli domandò.


Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatré anni sette mesi e undici giorni, notti comprese.

«Per tutta la vita» disse.



Dalla fine forse... Ma con entusiasmo.



E che sia un'alba allora, questo mio incipit.

Un'alba di scirocco, di zucchero filato. 
E rivivo Giuli e il suo: "Ma è vero che il sole nasce ogni giorno?"
E Milla: "Ma poi, alla sera, muore?"


Non è così anche per noi? 
Per tutta la vita?

Dunque da qui.
Un'aurora dicembrina dalla finestra di casa. Ma non una qualunque: dalla camera delle mie bimbe. Come è giusto che sia.

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