venerdì 24 maggio 2013

L'ombra davanti -1-

C'è questa cosa a cui sto lavorando da un po'. Non che abbia già una forma sua... Diciamo che ha capo e coda, ma tutto quello che deve stare in mezzo è abbozzato.
Comunque, in breve: è l'incipit del mio ultimo scritto... Sono a pagina 22, ma ve ne regalo solo 5, per non tediarvi troppo e perché il resto è in fieri.
Se a qualcuno dovesse interessare, farò, avere il seguito, fra qualche anno!!!

Un mio piccolo grazie per le migliaia di visite ricevute, davvero inaspettate. E perché magari tra voi c'è un editore :-P Così,  la smetto di riciclare barattoli!!!

-1-

Era certa che fosse lui già allo spegnersi del motore.
Il cigolio della chiave nella serratura; si concedette una digressione immaginaria su quanto potesse essere inconsueto, quella notte, un suono così familiare.
Il successivo sommesso schiarirsi la voce fu una conferma ulteriore - inutile e si trovò a sorridere. 

Silenzio. 

L’uscio si richiuse leggero. Un giro di chiave, di nuovo.
Sorrise ancora. Amava le attese. Un passo, due. Pausa.
Quella se l’era immaginata ogni giorno, ogni notte, negli ultimi anni, come un’adolescente annoiata, cuffiette di musica assordante e sogni da coltivare.
I passi iniziarono strascicati, in sordina. Tre quattro cinque. Si fermò di nuovo. Poi ripresero. Silenzio: tappeto dell’anticamera. Uno due tre.
Precisi. Regolari. Essenziali.
Doveva essere sulla porta ormai. Avrebbe potuto vederlo, non fosse per il buio.

Lui entrò.
Rimase in piedi.
Mano sullo stipite. 

Sentiva la sua esitazione. Ancora. Dopo tutto, nonostante, tutto.

 “Ti aspettavo” mormorò, “Ti accolgo”, avrebbe preferito dire. Ma forse lo avrebbe intimorito.
Ancora un passo, due.

 Lui si tolse il cappotto, lo piegò e lo appoggiò a terra. Scelse di sedersi sul letto, dandole la schiena.
“Ho visto Andrea, partire per Milano, stamane. Sei sola o è intercorso qualcosa?” sussurrò leggero.
Andrea.
Lo aveva accompagnato, alla stazione dei pullman alle 4:45, quella mattina. Dunque, lui sapeva.
“Sono sola”
“Vi ho aspettati stamani. Sono giorni che ho bisogno di passare da te. Volevo essere certo che non ci fosse Andrea. So che il lunedì parte presto e che il venerdì arriva poco dopo pranzo. Volevo essere tranquillo”
Rimase incerta, lei, dubbiosa, per qualche minuto. Poi ruppe il silenzio.
“Conosci molte cose, di noi…”
“So che fai la spesa di mercoledì e di sabato. So in anticipo cosa comprerai, sbaglio raramente. So del corso di poesia. So che orari scegli per camminare al parco. So quanti esami ha fatto Andrea. So che è un terzino. Vengo alle partite, quando posso. Ho visto anche Selene. Mi pare una brava ragazza. So che domattina comprerai una lampadina: ti si è bruciata quella dell’abat-jour ieri sera. Sono un’ombra del cazzo nelle vostre vite.”

 Lei rimase, immota, a non fissare il nero. Naufraga in un miele vischioso. Cercò di respirare a fondo, ma l’aria si fermava appena sopra i seni. Incamerava ossigeno in fretta a piccole quantità, era più un boccheggiare di trota sull'asfalto  un’aria di superficie. Non sorrideva più. A nulla era servito immaginare – immaginarlo, mille e mille volte. Che, nel tempo, lui le fosse stato accanto, non era contemplato.
Di contemplazione si parlava, appunto, mai vocabolo le parve più appropriato.

  “Io non ti vedo da anni.” Esordì. La voce asciutta, a spigoli vivi, non sua. Prese un sorso d’acqua dal bicchiere sul comodino. Deglutì piano. Si aprirono i polmoni come ali di farfalla. L’aria riprese a circolare. “Me lo ricordo bene quel pomeriggio bizzarro.” Continuò con molliche di coraggio “Il sole... Tu che sorridevi sempre, con il vaso tra le mani. E mi guardavi di sbieco. Ricordi? Avevi una maglietta orribile e pure le scarpe. Non hai mai avuto gusto nello scegliere le scarpe.”
Parlava lenta, un piede per volta sulla corda. Paziente. Cercava di trovare un equilibrio nei ricordi, a colmare quello che -per lei, era un vuoto lungo anni- undici dall'ultima volta. Undici cazzo, pensò. Undici.
“Le ho tenute quelle scarpe. Non le ho più indossate, ma sono lì, da un decennio.”
“Undici anni. E mezzo, oramai”
“Ecco”
“Non ti ho mai visto, sai, attorno a noi…”
“Non è proprio vero. Mi hai guardato così tante volte! Otto anni fa circa, per esempio, mi hai persino dato il buongiorno! Non sai quanto ho riso, giunto in macchina. Poi ho pianto per ore, un pianto disperato, da vecchio di fronte alla morte, da neonato strappato alla madre. Disperato. Un pianto di lacrime e bava e moccio. Disperato. Per ore...”

 Si interruppe, si alzò dal letto in direzione del comodino, prese il bicchiere d’acqua e lo portò alle labbra, bevve un sorso piccolo. Trattenne la bocca sull'orlo giusto il tempo di analizzarne - del gesto, la semplicità, la follia.

 Tornò al posto che si era scelto, si rischiarò la voce, riprese: ”Ero fuori dalla scuola a leggere i risultati di Andrea. Avevo gli occhiali da sole ed un cappellino da baseball, da americano in vacanza, bermuda e maglietta con una stampa enorme. Non avresti mai potuto riconoscermi. Io uscivo sorridendo. Era andato benissimo Andrea! E tu arrivavi tesa, non mi hai visto, mi hai urtato la spalla, ti sei scusata e mi hai salutato. Avevi un profumo fruttato. Sobrio. Non ti sono più stato così vicino per una vita.”

 Tracimava, lui. Senza perdere l’equilibrio.

 Si tolse le scarpe e le appaiò vicino al cappotto. Si distese sul letto, sopra le lenzuola. Lei cercò di guardarlo (otto anni fa), nello specchio che teneva sulla parete di fronte, (da almeno otto anni la seguiva), ma percepì giusto un minimo bagliore, nemmeno un vero riverbero.
“E la settimana scorsa, al parco.”
“Eri dunque tu…”
“Mi hai guardato, incredula, poi sei fuggita.”

L’aveva guardato quell'uomo  si era proprio fermata, passo incerto di una marcia tenace. Un quotidiano, lenti leggere sopra gli occhi, un cappello di feltro verde oliva. Aveva sperato fosse lui, ma non ne era certa, complici il tempo e una leggera miopia ma, aveva sperato. Poi si era vista, da fuori. Con una tuta da ginnastica color glicine, a ciondoloni, sempre troppo abbondante. I capelli raccolti malamente, con una matita infilata in un nido arruffato, stremata, sudata, spenta. Al ché aveva sperato che non fosse affatto lui o che non la vedesse, gli aveva dato le spalle e cambiato percorso.
“Il mio lavoro ha molti tempi morti.” spiegò ”Devo aspettare che i medici si liberino, che mi diano un appuntamento… Spesso leggo. A volte vengo a cercarti. Al contrario.. Insomma, a volte, solo a volte, mi metto a leggere.”
“Parli di otto anni… Io so giusto che ti sei laureato, che lavoravi in azienda, al paese, mia madre me lo raccontava al telefono! Poi, quando sono tornata, ho tagliato tutto: bisognava sopravvivere in qualche modo.”
“Io ci provai per i primi due anni. Quando eri lontana era stato più facile ed ero troppo arrabbiato. Poi ti vidi per caso, al supermercato di via Mazzini, circa venticinque anni fa. Io stavo cercando lavoro ed ero qui per dei colloqui, volevo mettere un po’ di respiro tra me e il paese. Tu non mi hai visto. Ti era caduta la lista della spesa dietro una cassa di verdure. La raccolsi. Leggendola avevo capito che avresti preparato il tuo dolce, quello con le ciliegie candite, lo zenzero e le mandorle. Ti seguii. Lasciai la lista in mezzo alla corsia e mi nascosi dietro l’espositore dei freschi, tu, sollevata, ti chinasti a raccoglierla. Fu un fatto da nulla, lo so. Ma il pensiero di aver fatto qualcosa per te mi cambiò la giornata- la vita, ma forse quella me l’avevi già cambiata in precedenza. Comunque… Ti accompagnai fino a sera, un passo indietro, e rimasi sotto casa tua, ad attendere che finissi di leggere. Quando hai spento l’abat-jour sono tornato al paese, a casa-mia. Ho deciso che avrei lavorato qui e ti avrei dedicato i miei ritagli di tempo. Che poteva essere un modo per sopravvivere e continuare. Il mio, modo.”
“Quanti figli hai?”
“Quattro. Il più giovane si chiama Mattia, ha dieci anni, il più grande”
“Il più grande me lo ricordo, è Stefano e ne ha ventidue, vivevo ancora al paese anch'io”
“Poi ci sono Isabella e Caterina di diciassette e quindici”
Lei non aggiunse altro, lui già sapeva.
“E Beatrice, come sta? E’ sempre bella come una Madonna del Botticelli? L’hai mai vista “Madonna col Bambino e otto angeli”? Si trova a Berlino, alla Gemaldegalerie, l’ho rivista un paio di mesi fa, per la terza volta. Mi appassiona quel quadro”
“E’ sempre bellissima. Sta bene. E’ morta sua madre lo scorso anno, ma lei è forte, reagisce a tutto. Non sono mai stato a Berlino.”
“E i tuoi? Come sta tua madre? Era così bella anche tua madre.”
“Invecchia, mia madre. Ma resiste. Un po’ di mal di schiena, una volta un ginocchio, un’altra il gomito, ma resiste. Mio padre invece”
“Lo so di tuo padre. Non sono venuta al funerale perché te l’avevo promesso. Ce lo eravamo promessi, ma tu, da quello che sento, non sei stato molto bravo a mantenere gli impegni.”

“Ti posso prendere la mano?”
Lei la allungò verso il buio. Lui la strinse. Non la riconosceva quella mano, pensò lei. Le dita erano nodose. Forse era dimagrito, forse solo il tempo, che scava- anche fuori.
“Stai bene? Perché sei qui?”
“Volevo che tu sapessi. Ho letto un libro in questi giorni. E c’è questo meraviglioso passaggio finale sulla permanenza dei sentimenti.”
“So di cosa stai parlando. Anch'io l’ho letto. Anch'io ti ho pensato.”

 Silenzio.

 Ma colmo, definito.

 Poi lui riprese:
“E la storia della permanenza mi ha convinto che questa volta il passo l’avrei dovuto fare io. Non riesco ad inventarmi nulla di folle, per te, ma forse è già abbastanza folle come trascorro i miei giorni.”
Lui attese ancora un po’ “Sai che ce l’ho ancora il vaso? Lo tengo sempre vicino al comodino, ho tolto la rete. Adesso l’arbusto è diventato ingombrante… Bagno l’erba, la taglio, la concimo. E’ ridicolo forse.”
“Non c’è nulla di ridicolo. E’ meraviglioso.”
E gli accarezzò il dorso della mano, paziente.
“Va bene, adesso vado.”
Lui le strinse le dita e se le portò alle labbra. Appoggiò un piccolo bacio nel palmo e chiuse, poi depose la mano sulla trapunta.

 “Ti aspetto sempre” disse lei "da sempre" corresse.
“E io veglio.”

 Si alzò dal letto, si infilò prima le scarpe e poi il cappotto. Si avviò alla porta.
Uno, due passi.
Si girò e per un attimo desiderò che quegli anni non fossero mai trascorsi o che fossero trascorsi tutti e che fosse finalmente finita quella tiritera.

 “Fa che ti veda, qualche volta…” gli disse a mezza voce.

 “Per sempre” Aggiunse.
“Da sempre”, gli fece eco.

 Uno due tre, tappeto dell’anticamera, uno due.
Silenzio.

 “Credi che, se fosse andata diversamente, trent'anni fa… Credi che saremmo stati felici?”
Lei sorrise:
“Più di questo esatto momento, intendi?”
Silenzio. Lui tentennò un attimo.
“Credi che, alla fine, ci saremmo amati? Fino ad oggi, intendo.”
“Più di così?” precisò lei.

 Lui annuì, più volte, nel buio. Ma non sorrise.
Cigolio. Familiare.
Cigolio di nuovo.
L’uomo salì in auto, al buio, senza nessuna ombra.

 Motore.
Che si allontana.

Immagine non scattata da me: http://www.charlieglickman.com/wp-content/uploads/2010/07/walking-shadow.jpg



















































































































































































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